La sveglia reclamava senza appello la sua attenzione. Uno sguardo veloce alle tapparelle gli confermò due cose. Era già troppo tardi e l’ultimo giorno di riprese sarebbe stato caldo e pieno di sole. Sottili raggi di luce filtravano dalle fessure, andandogli a illuminare con precisione le dita dei piedi e tutto lasciava pensare a una giornata di quelle buone, pronta a lasciarsi guidare senza pensieri verso sera. Al contrario di quanto si ostinava a suggerirgli la sua pancia, avvolta in uno straccio freddo e umido di inquietudine. Giulio Tremasse, più noto come “Wonder Muscle”, si alzò e accese la radio, dirigendosi verso il bagno col passo malfermo della notte. Sintonizzando il suo bacino sulla batteria dei Coldplay (“Warning sign”?), si guardò allo specchio e contò tre capelli bianchi da strappare, più un paio di rughe (nuove?), che massaggiò con cura certosina prima di mettersi in moto.
Come d’abitudine si dedicò alla sua triade di compiti mattutini – doccia, barba e ginnastica tonificante – seguita subito dopo da una colazione a base di frutta e cereali al cioccolato. La colazione dei campioni e dei pornodivi professionisti. L’unico rito quotidiano che gli dava la sicurezza di presentarsi sul set vigoroso, maschio e sull’attenti come si conviene. E come sempre era avvenuto, almeno negli ultimi undici anni di carriera per sessantadue film all’attivo, compresi alcuni dei capisaldi del cinema per adulti. Da “Tutto quello che avreste voluto prendere nel sesso” a “Cinderella e il suo amico coulored”, con cui mascherandosi da keniota immigrato, lui ch’era bianco come il latte scremato, riuscì a far penetrare per la prima volta nel mondo hard core le scottanti tematiche dei diritti degli immigrati.
In macchina la sensazione di chiuso alla bocca dello stomaco andò montando come panna rancida via via che si avvicinava alla meta, ovvero gli studi “Luxor”, in cui avrebbe dovuto girare per le prossime otto ore. Alle dipendenze del mastodontico Piero T. Ottone, regista un tempo d’avanguardia, lanciatosi a piè pari nella redditizia industria delle luci rosse. Forse meno soddisfacente per l’intelletto ma sicuramente più adatta a domare ogni giorno con i piatti più diversi il suo leggendario appetito.
Anche in scena quella maledetta sensazione di sciagura imminente non accennava a placarsi. Ma cosa cazzo mi sta succedendo? si chiese Wonder. Per tranquillizzarsi ricorse a un trucco che non lo aveva mai lasciato a piedi. Iniziò a contare gli oggetti nella stanza. Mentalmente passò in rassegna il letto (uno), doghe in legno e lenzuola verde pallido sfatte (due, tre), e il cassettone finto rococò (quattro), pieno di intarsi disegnati e rotondità sfuggenti. Poi il lampadario Ikea (cinque), che sfoggiava un paio di lampadine alogene sovrastate dalla luminosità spropositata dei riflettori, due sedie pieghevoli di plastica rossa (una chiusa e l’altra aperta con un paio di collant buttati sopra, sei e sette) e tutta la sequenza di oggettistica erotica che faceva capolino qua e là. Due vibratori in plastica rigida, un fallo di gomma oversize, un frustino, tre manette e perfino una vagina elettrica ultimo modello. Probabilmente portata lì per far numero (quindici).
Tutto era come doveva essere. La scena stessa che avrebbe dovuto girare non poteva che lasciarlo tranquillo. Una normalissima azione di gruppo con due donne, un classico del genere, nome in codice effe-effe-emme. Roba da mezz’ora a dir tanto, che poi ci si lavava e si andava tutti e tre a mangiare una pizza. Ma quella specie di morsa fredda all’addome non lo lasciava tranquillo. Come la presa di un morto, che lo costringeva a respirare più profondo del solito per rassicurarsi di essere ancora dalla parte giusta. Guardò l’orologio, mancavano meno di dieci minuti alle riprese. Dopo essersi spogliato indossò il suo abituale accappatoio e buttò giù meccanicamente due pastiglie di viagra, chiedendosi rassegnato quando sarebbe arrivata la brutta sorpresa.
– Ehi Wonder! – la voce, nasale e inconfondibile, era quella di Ottone – Vieni qua. Voglio dire… c’è stato un piccolo cambio di programma.
– Che cambio? – Rispose, mentre sentiva il panico farsi strada su per le viscere.
– Ma niente, vieni qua che ti spiego.
Si avvicinò titubante al regista. Quando fu a pochi centimetri dalla sua pancia abnorme sentì che il viagra tardava stranamente a fare effetto. Come ogni volta, all’ombra di quella massa di carne tremolante si chiese come diavolo facesse a farcela stare tutta dentro la camicia. Se l’avessero stesa per bene probabilmente la si sarebbe potuta usare come vela. Comunque aveva fatto bene a preoccuparsi, alla faccia del piccolo cambio di programma, Manùela Sverodova aveva avuto un piccolo incidente di lavoro con la sua anaconda, niente di che ma comunque avrebbe dovuto sedersi su un cuscino per tre settimane almeno e quindi ciao riprese. Ma il brutto era che non c’era stato verso di trovare una sostituta nemmeno a piangere.
– Ma…
– Oh Giulio, se ti dico che non si son trovate credimi. Il mese prossimo c’è la rassegna di Bucarest, voglio dire…, tutti stanno tirando al massimo per finire in tempo i film.
– E allora? Si va solo io e Kàtrina?
– Wonder, scusa, voglio dire… ma che ci limitiamo a un amplessucolo da dilettanti? No, non ci siamo capiti. A me serve qualcosa per chiudere con stile. Si va con un emme-emme-effe.
– Ma come… Scusa, ma veramente, io…
Il povero Wonder fu sopraffatto da dieci minuti buoni di dubbi, rifiuti e tentativi di convincimento. Gli si era perfino smontato del tutto l’effetto della pillolina blu dal tanto parlare, ma alla fine la pancia di Ottone fu irremovibile. In fondo un emme-emme-effe era una cosa da tutti i giorni. Una donna e due uomini, un gioco da ragazzi, da attori dilettanti, abituati a telecamere da pochi soldi e a set clandestini tirati su alla come viene viene nelle camere d’albergo. Lo conoscevano – la pancia e il suo possessore –il suo terrore da confronto diretto. Lo stesso che lo aveva mandato al tappeto dieci anni prima e che ora si stava di nuovo facendo largo fra le sue cosce. Quello stesso terrore che lo aveva fatto venire dopo appena venti secondi di lavoro, con tanto di risata beffarda della partner di scena e sguardo compassionevole di tutti i presenti. Ottone lo sapeva, “ma cazzo! Wonder, se non reggi queste pressioni dopo tutti i film che hai fatto allora c’è qualcosa che non va, voglio dire…”. E che non gli venisse in mente di tornarsene fuori con quella storia che lui okay con le orge di femmine, con gli assolo e perfino con gli animali se costretto, perché non era cosa. Aveva girato come un matto per beccare un altro uomo da far recitare con Kàtrina e lo aveva già convinto a firmare. Se avesse dovuto far saltare tutto come minimo gli toccava pagargli una penale.
– Ma lo sai che sta girando altri due film in contemporanea e che ci sta facendo un favore? Eh, voglio dire… lo sai? Dai che è una scena facile. Tre quarti d’ora al massimo. La pompate a turno, poi insieme, vieni tu, viene lui e tutti a casa felici e contenti. Eh? da bravo… Non rompere!
Da bravo un paio di palle, pensò Wonder. Appena Ottone gli volse la schiena, Giulio corse a farsi ancora un paio di capsulette magiche. Pensava meglio con l’arnese gonfio, sempre che ci fosse ancora qualcosa da fare. Poi si sedette sul bordo del letto di scena ad aspettare l’arrivo degli altri attori. Sperava almeno che il compare di scopate non fosse “Lucky Fuck”, al secolo Bernardo Tirantelli, giovane promessa da trentasette centimetri e tanta voglia di farsi notare. Lui il viagra, accidenti a sua madre, non lo aveva mai preso. Un po’ di respirazione con diaframma, due minuti di yoga ed era capace di un centinaio di colpi senza neanche dover riprendere fiato. La voce gracchiante dell’altoparlante gli ruppe la speranza sul naso.
– Cinque minuti! Gli attori in scena… Wonder, Kàtrina e Lucky!
Cazzo, cazzo, cazzo. Si mosse verso la scienza ostentando sicurezza, ma con l’inguine in frantumi. Odiava Lucky e la sua finta aria da persona normale. Fin tanto che indossava le mutande sembrava uno normale. Un amico, perfino. O un vicino di casa. Qualcuno a cui affidare i figli da guardare quando c’è una commissione improvvisa da fare. Qualcuno di cui fidarsi. Ma quando li tirava giù, quei dannati boxer, ogni candore fuggiva come l’ombra sotto il sole. Gli occhi si riducevano a due fessure e un ghigno da Satana di periferia gli si incideva sul volto obliquo e cattivo. Bernardo e Lucky erano due persone opposte costrette a convivere nello stesso corpo, serene e pericolose insieme. Tutto dipendeva dalla presenza di quel sottile strato di cotone. Una volta tolto l’uomo spariva e toccava alla belva. E in quel preciso momento, per l’appunto, Giulio notò la possanza del suo strumento di lavoro, libero da ogni impedimento di tessuto. Al pancione parlante toccarono le ultime istruzioni.
– Bene, allora – fece Ottone – Voglio dire… non è che ci sia molto da spiegare. Le parti grossomodo le conoscete. Inizia Wonder in piedi, Kàtrina si siede e ci va giù sicura come fa sempre e Lucky entra in scena una decina di minuti dopo. Il letto è già sfatto… quindi non c’è nemmeno da perder tempo coi particolari. Subito dopo voi ci date dentro così – e si appoggiò goffamente sul ventre enorme, guardando Giulio e mimando una inverosimile pecorina – e lui le si piazza davanti, voglio dire, così lei può ricominciare. E poi…
– Scusi…
– Sì, Wonder?
– Ecco… È prevista una scena in contemporanea?
– Voglio dire… Da quanti anni è che fai questo mestiere?
– Ehm… Undici, Ottone.
– E allora si può sapere che minchia mi stai chiedendo? Che cazzo di domande mi fai? È un MMF o no? Certo che è prevista una scena in contemporanea. Prima vi alternate davanti e dietro…
– Sì, ma…
– Aspetta, lasciami finire. Prima vi alternate davanti e dietro e poi, voglio dire, ci date dentro tutti e due insieme. Tanto Kàtrina è d’accordo. Son cose che fa abitualmente, no?
– Certo, certo che è cose che faccio. Mi conosci – rispose lei seduta sul bordo del lettone arte povera, nuda e già pronta all’uso.
– Ecco appunto… Ti conosco, ti conosco. Altre domande?
– No, Ottone. Tutto chiaro – rispose Wonder, mentre Lucky si limitava ad annuire con gli occhi fissi verso la fonte dei suoi guadagni, con uno strano sibilo in gola. Evidentemente era già alla fase della respirazione.
– Ok, allora. Iniziamo.
Chiusa la conversazione Ottone e la sua pancia sobbalzarono agilmente fino alla loro bella poltrona rinforzata da regista. Indossarono un paio di occhiali da sole dalla montatura bianca, una sciarpa extralarge che faceva tanto Fellini e chiamarono il motore. Lo schiaffo metallico del ciack risuonò nell’aria come una frustata. Wonder si portò in posizione, dritto come un fuso davanti a Kàtrina. A Ottone non erano mai piaciute le introduzioni troppo lunghe, preferiva partire direttamente dal cuore dell’azione. Il John Woo del porno, nientemeno.
– Azione!
Kàtrina partì senza esitazioni, la testa su e giù come mille altre volte prima e milioni dopo. Un due tre – fiato! – un due tre – fiato! – un due tr… Niente da dire, il suo dovere lo faceva fino in fondo, ma Wonder si accorse subito che qualcosa si stava andando per il verso giusto. Il viagra pompava nelle vene, il bastone era finalmente teso come un arbusto di savana. Ma il suo cuore e il suo cervello stavano cedendo. Era qualcosa che aveva a che fare con l’autostima o qualche altra spremitura di cervello simil-freud da supermercato. Qualcosa che aveva un nome e un cognome ben preciso, e che sarebbe piombato sulle sue certezze nel giro di pochi minuti con la potenza di un treno merci.
Un due tre – fiato! – un due… Tutto si bloccò all’improvviso. Presto per un qualunque mortale e troppo presto per un professionista come lui. Con la coda dell’occhio vide arrivare Lucky. Il montone Lucky. L’uomo tutto d’un pezzo, colui che le leggende narravano aver spinto per tre ore prima di fermarsi, come se niente fosse, prepotente come aveva iniziato. Lucky che si avvicinava. Che afferrava la testa di Kàtrina con le mani, sfilandola come un guanto da Wonder per farla girare verso di lui e stenderla sul letto. Giulio avrebbe dovuto guardarli per qualche istante, prima di darsi da fare. Dopo qualche minuto di inerzia ai sospiri di scena si aggiunse l’urlo isterico del regista.
– Wonder! Che cazzo fai! Entri o no? Eddai!
Entrare. È una parola. Non ci riusciva, avrebbe voluto ma non c’era verso. Kàtrina si staccò indispettita da Lucky e si girò verso di lui, guardandolo interdetta. Un copione è un copione, anche nel porno. “Va bene che tu improvvisa – gli disse con quel suo sguardo da primadonna del ventre mentre Lucky le stropicciava i capelli – ma vedi di muovere tuo culo e prendere me”. Ma fu questione di un attimo e Wonder non la notò nemmeno. Nel dubbio tornò al lavoro.
– Oh? Allora? Ti muovi o no? La battuta! Almeno recita la battuta, cazzo!
Wonder constatò che per la seconda volta l’effetto del viagra era sparito di colpo. Tutto tornò penzolante come il morale di chi si accorge di aver riposto male le ultime speranze. Le mani abbandonate lungo i fianchi, si scoprì a contare al ritmo dei respiri di Kàtrina – un due tre, fiato! – senza riuscire a farsi avanti, possederla come da istruzioni, prendere il tempo a Lucky e fargli da sparring partner. Se solo avesse potuto staccare gli occhi dalla mostruosa appendice che scompariva a tempo di valzer nella bocca di Kàtrina e a fare il suo dovere. Era la seconda volta che si trovava in mezzo a un emme-emme-effe e per la seconda volta eccolo come un cretino che fissava imbambolato la scena come un qualsiasi brufoloso delle medie davanti alla sua prima rivista spinta. Con il fiato mozzato e quel misto di eccitazione e vergogna che ti fa sentire grande. Solo che in lui non c’era niente di altrettanto vivo, a partire da quello che gli avrebbe dovuto dare da mangiare. All’appello non rispondeva nessuno e tutto lasciava pensare che non ci sarebbero stati arrivi all’ultimo minuto.
– Wondeeeer! Cazzo! La battutaaaaaaa! – Ottone non gli lasciava scampo.
“Ti piace? Vieni qua allora…”. Non era una battuta difficile. Cinque cazzo di parole e venti minuti di vai e vai col bacino. L’aveva fatto milioni di volte, con centinaia di donne, spesso con molte donne insieme. Una volta perfino mentre la sua partner si dava da fare con un pony. Ma erano gli inizi, quando lo pagavano poco e male e lui non aveva ancora nemmeno girato uno dei film che lo avevano reso famoso. Ma con un altro uomo in mezzo, mai, mai e poi mai. Non ci riusciva. Lo aveva anche fatto mettere per scritto sui contratti. E aveva voglia a desso quello stronzo di Ottone a dirgli che si era trattato di una situazione di emergenza. Anche a volerlo, guardò un secondo in basso verso la desolazione del suo inguine, era semplicemente impossibile. Si fa presto a parlar di battute quando non si deve far altro che starsene seduti su una fetida poltroncina rinforzata, sbavando e aspettando di chiudere baracca e burattini per andare in bagno a farsi un bel lavoretto in solitaria, che tanto nessuno ti toccherebbe nemmeno per sbaglio. Vuoi la battuta, maledetto obeso? Pronti! Ma stavolta recito a soggetto.
– Ragazzi… Allora… Le vorreste due birrette?
– Mpf… Mgrr… Yeah… – mugolò Lucky con disappunto. La donna non sembrò neanche sentirlo.
– (un due tre – fiato!)
– Ma che fa? È rincoglionito? – chiese Ottone, cadendo nel vuoto insieme alle sue parole.
– Dico… Due birrette fresche fresche… Non vi andrebbero? Siete tutti sudati.
– Yeah… C’mon…
– Ok, vai… vai… – rispose Kàtrina, nell’occasione maestra di sintesi e di respirazione alternata.
L’imbarazzo nello studio era palpabile. L’operatore staccò l’occhio dalla cinepresa e si girò verso il regista, in cerca di conforto. Gli bastò un’occhiata per capire che era meglio mantenere un tono professionale.
– Che faccio? Interrompo tutto?
– Ma, no… Non voglio sprecare lavoro per colpa di quel coglione vai avanti. Che poi Lucky mi sembra che ci stia dando dentro alla grande.
– E Wonder?
– Taglialo fuori dall’inquadratura quel cretino. Lui e le sue “birrette”. Con me ha chiuso. Morto. Finito. Non ne voglio nemmeno più sentir parlare. ‘Sta testa di cazzo. Ma si può dico io essere così incapaci? Uno come lui poi? Ehi, ma dove sta andando? Dove cazzo sta andando? Ehi, superstar! DOVE STAI ANDANDO?
Wonder si fermò ai bordi del set. Si rimise l’accappatoio e legò la cintura mollemente sul davanti, come faceva ogni volta che terminava le riprese. Si appoggiò un asciugamano sul collo e rivolse al regista un’occhiata da piano lungo americano. Macchina fissa con leggero zoom in avanti e stacco sull’iride sorniona.
– Al bar. A proposito, qualcun altro vuole una birra? Offro io.
L’operatore fece appena in tempo a trattenersi dal rispondere. Lo sguardo di Ottone gli bruciava sul collo, forse per una volta la sete era meglio tenersela.
Vaìa