29 maggio 2005


Mancano pochi minuti alla fine della partita, chiusa da buona parte del secondo tempo grazie al gol del tre a zero. Tre a zero! Non ne aveva visti molti negli ultimi anni. Una grazia e una benedizione, che ci permette di superare la squadra contro cui stiamo giocando, il Brescia, buttandola con tutti i vestiti addosso in serie B. Quando l’arbitro fischia la fine più di quarantamila persone allo stadio rimangono come in sospeso. Nessuna esplosione di gioia. Nessun coro liberatorio. Solo attesa. Attesa che dagli altri campi – Bologna e Lecce – arrivino i risultati finali. Immobile nel salotto di casa, lui suda per la tensione. A bocca aperta davanti al televisore, una sciarpa viola stretta in mano e l’orecchio violentato dall’auricolare della radio.

Le parole dei telecronisti gli scorrono nel cervello senza riuscire a imprimersi in nessun neurone. Capisce solo che sono tutti fermi sul pareggio. Zero a zero il Bologna con la Samp e tre a tre Lecce e Parma. Due pareggi, a qualche spicciolo di vita dalla fine di questo campionato maledetto, sono ossigeno. Sono linfa vitale, sono speranza e certezza di farcela dopo tanta fatica, afflizioni, torti subiti, sviste non segnalate, patimenti digitali-terrestri. Sono la certezza che non torneremo giù. Non ora. Non ancora. Che non è il nostro momento e che la lunga strada fatta fino a quel momento, dalla morte alla rinascita, non finirà bruscamente in questo caldissimo pomeriggio di maggio.

La mattina ha corso tanto. A Torino c’era una gara a cui non poteva mancare. "Se corro sotto i 45′ ci si salva", aveva promesso a se stesso, per chiudere a 53′ e qualcosa. Ma non sente la stanchezza, perché ogni molecola del suo corpo è tesa al risultato finale. Quando arriva il primo – Lecce e Parma hanno smesso di lottare dopo una gara da antologia del calcio – sente che manca pochissimo. La maglietta bianca è una pozza di sudore. Non vede più niente, non sente più niente. Si morde le unghie e si mangerebbe tutte le mani pur di far correre quelle fottutissime lancette.

Un anno fa c’era anche lui a festeggiare l’impossibile risalita. Aveva urlato con tutto il fiato che aveva in corpo e saltato sulle poltroncine di plastica viola dei parterre di tribuna del Franchi per dire che erano tornati. Per farlo sentire al mondo che non li avrebbero mai ricacciati indietro. “Chiedo la linea da Bologna – gli urla nella testa il telecronista – per dare il risultato finale: Bologna e Sampdoria zero a zero. La Fiorentin…”. Ad ascoltarlo non c’è più nessuno, la radio è volata per aria insieme agli occhiali. Davanti alla tivù c’è di nuovo un bambino di non più di dieci anni, invaso da una gioia purissima e cristallina dopo aver scartato il regalo più bello mai ricevuto.

Un bambino goffo e troppo cresciuto, che salta e ride e grida contro il mondo la sua felicità infinita, e la rabbia di aver dovuto aspettare fino all’ultimo secondo dell’ultima giornata, di aver dovuto affidarsi ai risultati degli altri per non affogare, quando tutti, ma proprio tutti, arbitri in testa, avevano fatto in modo che non potesse farcela soltanto con le proprie forze. Quando lancia uno sguardo alla televisione, nello stadio c’è un’intera città – la sua città – che piange per il sollievo, con le ossa rotte e i muscoli indolenziti per la tensione spaventosa. “Siamo ancora qua, figli di puttana! Siamo qua e non ci caccerete mai!”, urla. Non adesso. Non ancora.

Vaìa (io voto Sandra, fallo anche tu)

Commenti da Facebook:


Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *