Dal portone alle scale ci sono solo pochi gradini. Li percorro a due a due, lanciando una rapida occhiata allo sportellino in legno che da bambino aprivo e richiudevo per gioco, ogni volta che entravo nel palazzo. La balaustra è in metallo bianco, leggermente ingiallito dagli anni, con il passamano in legno chiaro. Mi basta fare pochi scalini e alzare il viso verso l’alto per vedere la sagoma familiare e rassicurante di mio nonno, che mi aspetta dondolando leggermente sul pianerottolo del secondo piano, le braccia conserte appoggiate alla ringhiera.
“Maurizio!?”, mi grida ogni volta, come se fosse stupito di vedermi. Io accelero, salto i gradini in un attimo, supero il primo piano, quello della famosa signora Corsini, e corro felice verso di lui, perché sono a casa e ho voglia di immergermi in quella bolla fatta di calore e protezione. Lo abbraccio tutto, il mio gigante diventato sempre più piccino, poi entro in casa. Dalla porta scorgo mia nonna, la generalessa delle cucine, che sta finendo di preparare i suoi manicaretti di benvenuto. La afferro tirandola su e come ogni volta lei mi stringe tanto forte da farmi male, sprofondandomi la faccia nel petto.
Mia nonna sa di buono, di odori di cucina, di vecchiaia e di tabacco. Mi mostra orgogliosa i suoi capolavori: decine di omelette alla marmellata, tiramisù nel frigo e una teglia di strudel casalingo pronta a essere infornata. Mentre mio nonno elenca i pregi del ragù che ha fatto con le sua mani e della fiorentina che sta per lanciare autoritario sulla piastra rovente. “È carne speciale questa! – mi ripete per la millesima volta con la sua parlata napoletana ricca di venature toscane – Non la trovi mica in giro, me la mette da parte i’ macellaio!”. “Lo so, nonno. Lo so. Grazie!”.
Come un animale che ritorna dal padrone dopo tanto tempo, ho bisogno anche io di riappropriarmi degli spazi, dei rumori, dei colori di quella vita. La casa dei miei nonni è proprio in riva all’Arno. È bella, luminosa e soprattutto “mia”. Il pavimento dell’ingresso, in marmo scuro striato di rosso e grigio, è sempre tirato a lucido. Davanti alla porta d’ingresso, proprio di fianco alla credenza su cui avevo un tempo lontano attaccato una foto di squadra della Fiorentina (1983-84?), c’è lo “stanzino”, dove mia nonna tiene gli abiti fuori stagione e la macchina per cucire. E dove nasconde le Futura, in attesa di fumarsele di nascosto dopo avermi convinto a comprargliele di contrabbando. “Tieni! Vai dal tabaccaio ma non farti vedere dal nonno!”, mi diceva frugandosi nelle tasche del grembiule per tirarne fuori dieci o ventimila lire. Poco lontano c’è il corridoio che porta al bagno. È lungo e ad angolo retto. Tanto lungo che se si spengeva la luce a un’estremità rimanevano almeno sei o sette metri di buio da percorrere, con tanto di curva. Una prova di coraggio che da bambino non sempre riuscivo a portare a termine.
In salotto intanto sono già iniziate le grandi manovre. Il mobile letto è stato tirato fuori e piazzato in posizione strategica, davanti alla tv, pronto per la notte anche se è ancora l’una del pomeriggio. Mia nonna si muove freneticamente fra lenzuola e federe, così tolgo le tende e faccio un salto in camera da letto. La serranda è tirata giù quasi del tutto. La stanza, armadio in legno, letto e cassettone con specchio, è in penombra. Da millenni, per un curioso gioco di rifrazioni, le macchine che passano sul Lungarno proiettano la loro sagoma sul soffitto. Io mi sdraio per osservarle meglio. Se la luce è quella giusta si riesce perfino a indovinarne il modello e il colore, scrutando il loro profilo che sfreccia veloce sul muro bianco. Mi sembra passi una Punto, ma non ne sono certo. Oggi le condizioni non sono delle migliori. Capisco che è verde, ma per il resto posso soltanto provare a indovinare.
Ogni cosa, ogni sguardo che lancio, ogni oggetto si trascina dietro un ricordo. Nel salotto buono, quello praticamente mai usato se non per accatastare nei mobili corredi e medicine, aleggia ancora l’immagine delle mie due nonne che si contendono il mio possesso, durante la festa per il mio battesimo. Da qualche parte, fra le fotografie che mia madre nasconde gelosamente, ce n’è una che è un capolavoro: mia nonna materna mi tiene in braccio sognante, mentre di fianco a lei quella paterna aspetta gelosa il suo turno, lanciando un’occhiata di sbieco che è invidia e minaccia insieme. Era il 1973.
“Maurizio! È pronto!”. Mio nonno mi chiama col suo tono da maresciallo che non ammette discussioni, ma d’altronde non vedo l’ora di gettarmi su tutto quel ben di Dio. Volo in bagno a lavarmi le mani, seguendo con gli occhi le linee fra le piastrelle verdi che mi circondano, come a trovar la via di fuga da un ipotetico labirinto (non riesco a fare a meno dei miei riti di bambino). Il corridoio adesso è soltanto un ostacolo fra me e la felicità. Lo percorro in un secondo, lanciando un’occhiata distratta al mobile delle scarpe e al telefono a muro, decorato da mille biglietti che mio nonno ha riempito di numeri di telefono con la sua calligrafia perfetta d’altri tempi: mia mamma, mio zio, i pochi amici, il medico.
Non faccio in tempo a sedermi che un piatto di tagliatelle si materializza davanti a me, sontuosamente ricco di sugo e parmigiano. Non si possono fare complimenti con i miei nonni. Non sono ammessi e del resto io non ne ho alcuna intenzione. La forchetta affonda senza remore in quella matassa di carboidrati e al primo morso chiudo gli occhi e alzo il viso per ringraziarli con un ululato di approvazione. “Mmmhh! Sono buonissime!”.
Quando riapro gli occhi ci metto qualche secondo a mettere a fuoco l’ambiente. Di fianco a me c’è una donna che russa leggermente, sdraiata su un fianco e solo in parte nascosta dalla tenda azzurra che separa le diverse aree della stanza. Il flacone dell’ossigeno emette il suo ossessivo rumore di bollicine, ma lei non sembra esserne disturbata, anche se ogni tanto fa dei versi strani con la bocca. La paziente di fronte dorme beata, avvolta dalle lenzuola. Sta guarendo, si vede da come riposa serena. Ancora qualche giorno e sarà a casa. Dal corridoio arrivano voci soffocate degli infermieri e dei malati disposti di lato ai muri, ancora sulle lettighe. Tutto sommato è una notte tranquilla. Ce ne sono meno di ieri, in attesa della prossima infornata dal pronto soccorso.
Mi sollevo appena sui gomiti e subito parte l’attacco di tosse, forte, interminabile. Sembra che i miei polmoni vogliano buttare fuori tutto quello che hanno, bronchi compresi. Mi calmo lasciandoli fare e bevendo un po’ d’acqua. In bocca mi è rimasta la voglia di quelle tagliatelle e nelle narici quell’odore di cucina così reale da far male. Un ricordo che si era nascosto chissà dove nel mio cervello, per uscire a tradimento in questa notte di dubbi e paure.
Mi volto su un fianco, soffocando il bisogno di tossire ancora e ancora e ancora. Ripenso al sogno e sorrido appena. Da bambino e ragazzo scappavo a Firenze per annegare ogni problema dentro un affetto totale e incondizionato. Sono anni che tutto è finito, ma a quanto pare la mia mente fugge ancora per i fatti suoi, quando sente che è il momento di farlo. E ha ragione, perché io adesso non ho più paura. Sto bene e sono sereno. Penso a tutto quello che ho passato e che ancora devo passare e mi stupisco per la tranquillità che scorre nelle mie vene. La fuga, ancora una volta, è riuscita a placarmi. Mi rimane però il rammarico per quel piatto di pasta che ho potuto solo immaginare di assaporare. Uno scherzo di cui avrei fatto a meno, perché come per ogni ricordo felice, mi lascia in bocca un sapore agrodolce. La consapevolezza di quello che ho perduto e di quello che ho avuto la fortuna di vivere. O forse è soltanto il retrogusto amaro degli antibiotici di cui mi stanno riempiendo da giorni.
Mi copro bene col lenzuolo anche io. Stasera fa fresco e devo cercare di riposare. Confido in un sonno pesante e senza sogni, che la notte è lunga da passare e io sono ancora troppo stanco.
Vaìa
è vero che la notte è lunga. ma più il buio è profondo, più la luce dell’alba sarà perfetta.
un abbraccio
sticazzi, l’ospedale ti fa bene, è il tuo servizio militare!
Proprio bello, bravo.
Ti voglio un bene immenso. Sono sempre lì con te anche se non mi vedi. Ciao fratello.
Appena starai meglio ci torneremo a Firenze…promesso!
Non dico fino a Firenze, ma un sano giro in moto per le colline astigiane con puntata in un ristorantino a conduzione famigliare con un ottimo Vinchio Vaglio… questo te lo prometto, amico mio.
Tieni duro, la luce sta tornando, e non è quella dei neon all’ospedale!
il Visco mi ha accennato.
ti sono lontano, come da tanto tempo. e quell’incontro in corso marconi, venti metri per ridurre dieci anni, non basta. e però sarebbe curioso, se non forse anche bello. continuo a leggere da lontano, per ora e per fortuna.
bello. non occorre aggiungere altro.
ciao gomboli…intuisco dato che non ci si vede e sente da anni che ci sia o sia stato qualche intoppo di salute…non so l entita’ ma spero di cuore lieve.
ti mando un abbraccio dal passato…spero aiuti il presente e allegerisca il futuro.
ale