Mario Gomboli era nostro padre. E lo dico sinceramente: era un padre impegnativo. Quando ero bambino molti dei miei compagni di scuola la sera guardavano Drive In. Noi l’albero degli zoccoli, di Olmi. Molti dei loro padri, che come noi venivano da fuori, li avevano spinti a tifare per la Juve. Noi per la Fiorentina, con tutte le amorevoli sciagure del caso. Non siamo mai stati una famiglia abituata a vincere.
Mio babbo era così. Mai dalla parte più facile, mai con le soluzioni più comode in tasca. Mai dalla parte dei più. Lui aveva il suo modo di vivere la vita e difficilmente veniva a patti. Si infervorava subito, per così dire. Prendeva il suo sgabellino portatile, ci saliva sopra e iniziava un comizio.
Ti metteva alla prova col ragionamento. Ti chiedeva conto. Ti provocava. E così facendo ti insegnava che non c’è mai un solo punto di vista. Con i libri, i film, la musica, ti educava all’intelligenza e alla bellezza. Ti faceva diffidare delle facili soluzioni, del pensare comune, dell’adulazione, dei premi ottenuti troppo facilmente. Le cose che hanno valore costano tempo e impegno. E durano per sempre.
Non ha avuto una vita facile, mio padre. È una delle cose che ho ereditato da lui. Sicuramente nel suo essere artista ha avuto meno riconoscimenti di quanto avrebbe meritato. Non sapeva vendersi, non sapeva farsi amico chi contava. Non era nei giri “giusti”. Però sapeva dipingere. Conosceva il peso del mondo e ne sosteneva lo sguardo con l’occhio di un bambino e l’incoscienza di Pinocchio, per poi riprodurlo nei suoi quadri o tratteggiarlo nelle sue poesie. Con l’orgoglio di chi non chiede, perché sa che sono gli altri che dovrebbero farlo.
Non è stato un padre facile. È stato un padre di cui andare fieri. Se siamo capaci di distinguere un’opera d’arte da una mucca in formalina, è grazie a lui. Se non chiediamo favori o non ci accodiamo al gregge per ottenere qualcosa, è grazie a lui. Se valiamo come uomini, prima che come figli, è grazie a lui.
C’è una scena di Good morning Babilonia, dei fratelli Taviani, che mi viene sempre in mente quando penso a mio padre. Quando all’americano che non li vuole come operai perché italiani (furbetti, scansafatiche, con la pancia al sole e le mani sulla pancia) i due fratelli scultori fiorentini rispondono con l’orgoglio dell’arte e del sangue: “Di chi sei figlio tu? Noi siamo i figli dei figli dei figli di Michelangelo e di Leonardo. Di chi sei figlio tu?”.
Oggi salutandoti io ti ringrazio, babbo. Perché ho sempre saputo cosa rispondere. “Di chi sei figlio tu?”. Io sono tuo figlio. Siamo figli tuoi.
Vaìa
Also published on Medium.
Leggendo le tue parole mi spiace non avergli mai stretto la mano. Una bella eredità, comunque. Un abbraccio.
È proprio bella Maurizio.Io ho avuto la fortuna di conoscerlo
ero uma ragazzina e sia io che i miei fratelli eravamo affascinati dai suoi modi ,dallla sua cultura e dalla sua allegria.ricordo le sue risate rumorose insieme a mio padre che lo adorava. Siamo stati fortunati tu ed io ad avere dei papà così. Ti abbraccio forte con affetto Titti.