Una giocata inattesa


Se chiudo gli occhi mi pare ancora di vederlo, quel ragazzone alto e sgraziato. Sempre un po’ sovrappeso e indeciso nel suo diventare uomo, fra baffetti di una peluria tenera e scura e la voce che stava diventando piano piano quella di un adulto, ma che ogni tanto cedeva ancora a tradimento agli acuti dell’adolescenza.

Per esempio, me lo ricordo quel giorno sul tram della linea 1 che lo riportava a casa da scuola durante il primo anno di ginnasio, con la mente affaticata dalle lingue morte che era obbligato a studiare con teutonico rigore e il corpo vessato dal peso dell’Invicta blu e giallo fluo ereditato dalle medie e caricato di enormi dizionari di latino e greco.

Era un novembre appena iniziato. Il sole che entrava di sbieco dai finestrini del tram e la gente era ammassata sulle seggioline in legno consunto o in piedi, con le mani aggrappate alle maniglie di metallo umido. Tutti stretti uno contro l’altro in attesa della propria fermata o intenti a guadagnarsi un posto vicino al pulsante che avrebbe fatto scattare lo scampanellio della “fermata prenotata”.
Col suo zaino attirava su di sé gli sguardi d’odio di tutti gli altri viaggiatori, mentre annaspava fra corpi di massaie di ritorno dal mercato, con i sacchetti pieni di frutta e verdura premuti sui polpacci, e pensionati sempre in prima fila quando si trattava di trovare un posto a sedere in mezzo a tutta quella calca. Di solito, una volta saltato sul tram cercava subito di spostarsi al centro della vettura, verso quella specie di slargo rotondo che c’era proprio dove si congiungevano i due tronconi di quel lento serpente di metallo giallo. Era come un istinto innato di sopravvivenza, lo stesso delle tartarughe appena nate, che si spingono verso il mare perché sanno che da quello dipenderà il loro futuro.

Quel giorno, arrivare fin lì sarebbe stato impossibile. Troppa gente, troppa calca, troppi sguardi di odio preventivo verso quello zaino imbottito più del solito. Appena salito, decise di fermarsi subito, ricavandosi un piccolo spazio fra una signora tutta intenta a frugarsi nella borsa in cerca di chissà che cosa e una coppia di anziani carichi di lastre e fogli d’ospedale. Lei con gli occhi fissi verso la lampada al neon del tettuccio e lui con lo sguardo umido a guardarla, come si guarda una cosa fragile e preziosa.
Ma lui non fece caso chi gli stava intorno. Appoggiò la schiena sul passamano appena sotto il finestrino, lasciando scivolare il borsone direttamente dalla spalla in mezzo alle gambe, e rimase immobile, con la mente concentrata sul tragitto e sui rumori del tram, che scandivano ritmicamente il viaggio. Fu in quel momento che, fra una selva di braccia aggrappate agli appositi sostegni e teste dondolanti, riconobbe il suo profilo. La fronte alta incorniciata da folti capelli castani, raccolti in una coda di cavallo. Il naso appena all’insù, gli occhi chiusi e la bocca imbronciata, subito sopra un mento bianco come il latte e morbido, almeno così pensava, come un batuffolo di cotone.

Monica, si chiamava. Monica Qualcosa. L’aveva già vista più di una volta a scuola, durante l’intervallo, mentre camminava con qualche compagna su e giù per il cortile, proprio dietro il campetto di atletica. Molto più alta della media, aveva un’andatura buffa, come se volesse limitare la propria falcata naturale per stare al passo con le altre ragazzine. La sua postura era sempre appena incurvata, quasi si vergognasse di quei centimetri di troppo, e quando doveva parlare con le altre tendeva a piegarsi ancora un po’ verso il basso, come in un inchino appena accennato.
Senza pensarci più di tanto afferrò lo zaino e incurante del fastidio che avrebbe provocato iniziò a sgusciare fra spalle, borse e borsoni finché non riuscì ad arrivare alla sua meta, in un frastuono di “mi scusi!”, “ma insomma!” e “faccia piano!”. Monica non sembrò accorgersi di nulla. Teneva gli occhi socchiusi e lasciava dondolare il capo assecondando il ritmo del tram, tutta impegnata a inseguire chissà quale pensiero. Lui la osservò da vicino per qualche secondo. Poi, raccogliendo tutto lo scarso coraggio di cui era capace, le rivolse la parola.

“Ehm… Ciao!”. La voce che gli uscì di bocca era quella acuta e stridula di un undicenne eccitato. Lei aprì gli occhi di scatto e prima che riuscisse a guardarlo in faccia, lui si schiarì la voce con un deciso colpo di tosse, scendendo di qualche ottava prima di ripetere il suo saluto con lo stesso tono di un baritono della Traviata.
“Ciao… Ecco… Ti ho vista… Insomma… Anche tu prendi l’1 allora!”, balbettò lui, sforzandosi di mantenere un tono professionale e distaccato. Che stonava paurosamente con le gocce di sudore che iniziarono a imperlargli la fronte. Da dietro una signora con un vistoso soprabito a fiori lo spingeva con insistenza sulla schiena verso la ragazza, per farsi spazio.
Lei lo guardava un po’ sorpresa. Non aveva idea di chi fosse quel ragazzo in precario equilibrio comparso dal nulla al suo fianco, proprio mentre stava declinando mentalmente i verbi che avrebbe dovuto imparare per il giorno dopo e che come al solito iniziava a studiare appena uscita da scuola, per portarsi avanti con lo studio.
“Già”, gli rispose, con lo stesso tono con cui la domenica mattina avrebbe ribattuto al citofono a un testimone di Geova.
“Ah! Eh… Infatti… Sei qua… Ah! Ah! Ah!”, rise nervosamente lui.

Lo spettacolo iniziava a farsi interessante, soprattutto per i viaggiatori più vicini a quella coppietta così male assortita. Diverse paia d’occhi si volsero verso di loro, curiosi di capire che piega avrebbe preso l’incontro.
“Già”, ripetè lei.
“Ecco… Io sarei Marco. Cioè, sono Marco… Voglio dire… Sono, non sarei. Quarta C… Magari mi hai visto in cortile! Sai, io ti ho visto spesso in cortile, cioè spesso no, qualche volta, non che ti osservi così tanto, cioè capita, no? O no…?”. La situazione, palesemente, gli stava fuggendo di mano.
“Non so”, gli fece lei, guardando fuori dal finestrino.
I presenti si fecero ancora più attenti. Qualcuno si diede di gomito, altri cercavano di farsi più vicini, come se sentissero nell’aria l’elettricità che precede un’inevitabile dramma.
Lui rimase con un’espressione di estasi stampata sul viso. Sembrava voler raccogliere i pensieri, annaspando in cerca di una frase a effetto, un complimento. Qualcosa che lei non avrebbe potuto ignorare tanto facilmente. Poi sorrise deciso. Sembrava averla trovata.
“Però… Sai che da vicino sei ancora più alta di quello che sembri a scuola? Sei proprio alta alta!”, le disse, sottolineando l’aggettivo lasciando lo zaino e alzando la mano fin sopra la testa. Con gli occhi accesi dalla speranza.

L’effetto sul pubblico fu quello di una giocata inattesa. Come quando allo stadio l’ala cavalca sulla fascia e tutti si aspettano che cerchi di raggiungere il fondo campo per crossare, che poi è quello il suo mestiere. E invece lei, proprio sul più bello, scarta di lato verso l’interno e azzarda un paio di dribbling per arrivare in mezzo all’area, da sola davanti al portiere. E il pubblico si sente che trattiene il fiato in un “oooooooohhhh” collettivo, prima di vederla impattare contro il difensore come un uccello contro una finestra chiusa, che lo stronca in volo proprio mentre era più sicuro di avere tutto il cielo a disposizione.
Lei si girò lentamente, come se non avesse capito bene, e lo guardò con gli occhi sgranati e umidi. Anni di imbarazzi, di spalle curve a nascondere una crescita improvvisa e odiosa, di risatine sarcastiche delle compagne di scuola, di “giraffa! giraffa!” urlati a squarciagola dalla seconda media in poi, di desideri frustrati per tacchi impossibili le crollarono sulle spalle come una montagna in un lago. Sforzandosi di non piangere si girò senza neanche trovare la forza di una risposta e approfittando delle porte aperte scese di corsa, sgomitando, tre fermate prima della sua.

Lui rimase appeso alla barra di metallo, con la terribile sensazione di aver commesso un errore e la consapevolezza di non riuscire a mettere a fuoco esattamente quale. Sentendosi osservato, girò con nonchalance la testa a destra e a sinistra, facendo finta di cercare qualcosa o qualcuno, e percepì chiaramente su di sé la riprovazione di tutti gli altri viaggiatori. Cercando di allentare la tensione, biascicò qualcosa tipo “Ah, abita qua allora… Si vede che non si era accorta di essere arrivata…”, ma si rese conto di non convincere nessuno, nemmeno se stesso. Così non poté fare altro che tornare sui propri passi, facendosi largo mestamente fra braccia e teste ostili, verso il fondo della carrozza.

Se chiudo gli occhi mi pare ancora di vederlo, quel ragazzone alto e sgraziato. Appoggiato con la schiena al passamano proprio sotto l’ultimo finestrino di un tram che si allontana piano, lo zaino in mezzo alle gambe e la mente alle prese con i primi misteri del mondo femminile. Quante cose potrei spiegargli, adesso.

Vaìa

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