Oltre il giardino


A un certo punto mi trovo in un giardino pieno di vecchie carrozze. E quando parlo di carrozze mi riferisco a quelle tirate dai cavalli, con enormi ruote di legno, il posto per il cocchiere e quello, riparato fra velluti e ori, dei nobili che stavano dietro. Nere fuori, abbandonate da anni ma pulite, lustre quasi. Anche se irrimediabilmente intrise di una sensazione di abbandono, di vecchiaia.

Il giardino sembra circolare e costeggiato da un muretto grigio. C’è molto verde e le carrozze sono posteggiate ai suoi lati, in una specie di semicerchio. Io ci sono arrivato scappando, come spesso mi accade negli ultimi giorni. Fuggo da qualcuno o qualcosa che non riesco mai a definire. E questa volta sono finito qua, appena dopo essere uscito dalla grande villa bianca che ancora fa capolino dietro le siepi.

Passo fra le carrozze rasentando il muro e a un certo punto scavalco l’asse a cui si fissavano i cavalli (come diavolo si chiama?) e mi sposto nel centro del giardino. In quel momento lo vedo. Il varco, la porta di uscita, la via di fuga. È un arco di piante, sicuramente cesellato dalle mani esperte di qualche giardiniere. Le stesse che da troppo tempo non sono più passate a trovarlo, perché come le carrozze e il resto del giardino, anche questa porta vegetale mi appare in tutta la sua desolazione.

I bordi si sono frastagliati. Le piante, ricresciute senza più costrizioni, si sono reimpossessate dei loro spazi naturali e lo nascondono quasi del tutto alla vista. Come se non bastasse l’arco è invaso dalle ragnatele. Fili di lana bianchi che corrono da un lato all’altro della mia porta. Io ci devo passare, su questo non c’è dubbio. Anche se le ragnatele mi terrorizzano. Anche se sono certo che dietro le foglie, in mezzo al folto della vegetazione, odiosi ragni mi aspettano per corrermi addosso appena violerò il loro territorio. Ma è l’unica via. Ho paura, mi guardo indietro, ma poi chiudo gli occhi. Abbasso la testa e me la copro per quanto posso con il colletto della camicia prima di buttarmi dentro quello schifo di salvezza guarnito di aracnidi. Fuori, finalmente.

Mi sveglio con ancora quella sensazione di schifo e di appiccicoso legata addosso. In bagno mi sciacquo la faccia e mi controllo con cura alla ricerca di qualche ospite indesiderato. L’arco svanisce con l’arrivo della lucidità. Ma forse è proprio ora di uscire, anche per me.

Vaìa

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