Un minuto prima dormi. I tuoi figli accanto. La casa. I tuoi oggetti, le tue cose.
Un minuto dopo non hai più nulla. Forse la vita, se va bene. Più spesso la disperazione, assoluta e piena, per ognuno dei giorni che ti restano.
Il terremoto dell’Abruzzo ha scritto in sessanta secondi mille storie di vita e di morte. Di speranza e di dolore. Mille storie che non riesco nemmeno a leggere sui giornali. Perché parlano della nostra paura più profonda. Della possibilità di perdere tutto senza alcuna possibilità di opporsi.
Del terrore di perdere un figlio, di doverne riconoscere il corpo. Di doverlo abbracciare per l’ultima volta e piangere per sempre.
Non viene nemmeno più la rabbia per le cose che si sarebbero dovute fare e non si sono fatte. Per le case di cemento armato che avrebbero dovuto essere antisismiche e che si sono accartocciate su loro stesse.
Per chi ha risparmiato sui materiali. Per chi non ha investito in sicurezza in zone che tutti sapevano a rischio. Per chi non ha fatto nulla dopo mesi di avvisaglie.
Irpinia. Umbria. San Giuliano. Abruzzo. Tutto si ripete uguale e tutto si dimentica. In questa merda di paese che siamo diventati e che in fondo siamo sempre stati. In questa Italia dalle mille piaghe aperte, che si disinteressa di tutto e maledice il destino. Ma mai se stessa.
Questo paese mai cresciuto. Che campa giorno dopo giorno alla meno peggio. In attesa della prossima scossa e di una nuova fila di bare. Allineata su un prato, in un giorno qualsiasi della nostra vita.