Il mio letto di bambino era nel bel mezzo di una stanza da studioso. Una poltrona sistemata fra una lunga vetrinetta ricca di libri e una scrivania di legno ottocentesco bucherellata da generazioni di tarli professionisti. Davanti, una piccola televisione in bianco e nero, appoggiata su una cassapanca di legno lavorato a intarsi che formavano una storia fatta di esploratori ed elefanti. Un richiamo all’India completamente fuori posto, ma che aveva ormai conquistato la sua patente di familiarità.
Quando andavo a dormire, l’imbottitura veniva completamente rimossa dallo scheletro metallico e la poltrona si allungava docile a mostrare la sua anima morbida e adorna di lenzuola, che le mani domestiche di mia madre riuscivano a rendere sempre profumate e fresche di bucato. A volte, prima di abbandonarmi al sonno, mi era concesso di guardare ancora un po’ la televisione. Un’abitudine che ho conservato fino a oggi e che più di una volta, nell’epoca difficile dell’adolescenza, ha ostacolato la tranquillità delle mie notti.
Tutto intorno a me, su ogni parete, decine di quadri si rincorrevano in punta di chiodo. Ritratti, panorami, disegni astratti, chine, litografie. Mi osservavano severi mentre scivolavo nel sonno, tenendomi compagnia silenziosamente per tutta la notte. Il treno sperso nella neve e lanciato verso una stazione calda e accogliente. La dama con le mani incrociate, che sembrava volermi proteggere dal buio. Mio padre bambino, camiciola bianca e riccioli indemoniati, e la testina di putto che mi spiava di sbieco, quasi vergognandosi. Tutti erano diventati miei buoni amici. Perfino il cavaliere scomposto e sfaccettato che dominava il letto dall’alto della parete principale, che mi piaceva immaginare pronto a difendermi da ogni pericolo potesse balzar fuori dall’oscurità.
Certe mattine di primavera, quando la scuola era finita e potevo dormire più del solito, mi capitava di svegliarmi con il sole già alto. Abbastanza almeno da superare il tetto della fabbrica che si elevava con la sua facciata grigia subito dopo il muretto del cortile, per gettare la sua ombra sull’intero palazzo. Solo in quel momento la luce del sole riusciva a filtrare dalle finestre del balcone della cucina, tagliando la stanza come un coltello nel burro e infilandosi gioiosa nell’ingresso, per concludere il suo viaggio nello studio dove era stata ricavata la piccola nicchia della mia infanzia addormentata.
I raggi del sole piovevano proprio sopra il mio cuscino, riportandomi tutto a un tratto nel mondo. Era una sensazione di gioia pura. I miei occhi, che si aprivano per serrarsi subito per la troppa luce, ci mettevano sempre un po’ per abituarsi a quel flash improvviso. Poi il buon umore si impadroniva di me, scacciando definitivamente il sonno. E ogni volta, col corpo ancora sprofondato fra le lenzuola, mi fermavo a osservare gli spicchi di sole che venivano tagliati dagli angoli dei mobili, dalle cornici dei quadri, dai profili delle sculture. Proprio in mezzo a loro, l’aria pareva animarsi, popolata da miliardi di minuscole particelle di polvere in sospensione. Pulviscoli dorati che galleggiavano nel niente, nel breve spazio fra due zone d’ombra, e sparivano all’improvviso inghiottiti dal buio.
Ancora non lo sapevo che era un po’ come osservare la vita degli altri, il loro affannarsi, il loro gioire, il loro essere trafitti da un po’ di luce, prima della fine. Ancora non lo sapevo, perché ero un piccolo bambino ignorante, che non conosceva i poeti ed era felice del suo solo esistere. Trascorrevo i minuti assaporando quell’innocente sensazione di totale benessere e non potevo immaginare che un giorno avrei ucciso per risentire sulle palpebre quella lama calda e gialla. Quando esistere non mi sarebbe bastato più e avrei scoperto sulla mia pelle quant’è difficile restare a galla, cercando di non farsi inghiottire.
Vaìa