Parallelepipedi e strade pulite


Leggo questo libro e mi rendo conto di due verità, che gli anni avevano contribuito ad oscurare. La prima è un ricordo. La “pulizia della strada”, mitico evento urbano che a Firenze coinvolge tutti i quartieri cittadini, i cui abitanti a turno, una volta alla settimana, sono obbligati a prendere la macchina e a posteggiarla lontanissimo da dove abitano. Il tutto entro mezzanotte, come in ogni fiaba che si rispetti.

E perché poi, vi chiederete? Per la “pulizia della strada” appunto… quando marciapiedi e vie della città vengono letteralmente inondati di acqua profumata mista a sali da bagno per asfalti disidratati. D’estate e d’inverno, cadesse il mondo.

Me lo ricordo bene, io, il nonno che ogni lunedì della sua vita, solitamente verso le 19 si vestiva (il che per lui significava indossare completo, cravatta, paltò e cappello) e usciva di casa diretto alla fedele Fiat 127C per spostarla di là del fiume, sul lungarno Del Tempio o Cristoforo Colombo, al riparo da indiscrete macchinette spazzolatrici e da vigili inflessibili. A volte, da piccolo, lo accompagnavo ed era un’avventura ai confini del mondo conosciuto. Poi ho iniziato ad andarci io, al suo posto. Ma la meraviglia se n’era già andata.

E ogni maledetta volta, come per magia, a mezzanotte esatta lungarno Ferrucci si svuotava di macchine e appariva nudo come un uomo troppo in là cogli anni, spinto dagli eventi a mettersi in mostra fin nei suoi più piccoli difetti. L’asfalto spaccato, le crepe vicino alle radici degli alberi, le cartacce da portare via. Le strade però, e non ho mai capito come fosse possibile, non è che dopo risultassero molto più pulite, per dire, di quelle che ci sono qua a Torino. Durante la notte, poi, lentamente tutto si ripopolava e il giorno dopo rimaneva soltanto il ricordo di una fastidiosa abitudine.

Il libro parla di questo, più o meno negli stessi termini. Ma parla anche di molte altre cose della mia Firenze. Dell’interno di case e palazzi che non ho mai visto. Di università o biblioteche dove non ho mai studiato. Di circoli e locali dove non ho mai messo piede per divertirmi. Spazi fisici che per me, abitante part-time della città con itinerari fissi e definiti (casa nonni – negozi del quartiere – musei – stadio – centro – casa nonni) si sono limitati a essere stupendi parallelepipedi architettonico-rinascimentali che hanno fatto da sfondo alla mia vita, senza mai farne parte realmente. Un palcoscenico di grandissimo effetto, ma di cartone.

Credo sia proprio questa è la differenza tra vivere una città e amarla come un oggetto raro messo in vetrina, ma inaccessibile. E questo è anche il mio più grande rimpianto quando penso alla mia città natale, al tempo che ci ho passato e ai pezzi di cuore che ho seppellito nella sua terra, insieme ai miei nonni. Prima di dormire a volte mi capita di immaginare la vita che avrei potuto avere rimanendo là, non migliore né peggiore, semplicemente diversa. Ai "chissà cosa" e ai "perché mai" rimasti in sospeso. E soprattutto a quella sensazione di pienezza che l’appartenere realmente a un luogo, o anche solo il ricordarlo, è capace di infondere.

Chissà (appunto)… Forse oggi non conoscerei nemmeno quella sensazione di amore fallito in partenza. Che avrebbe potuto essere grande più di ogni altra cosa, ma che in un modo o nell’altro si è limitato a essere una promessa non mantenuta fra le tante. Un’illusione facile da sognare e per questo ancora più frustrante. Come quella di poter avere, almeno una volta alla settimana, la strada di casa perfettamente pulita e spazzolata. In cambio solo di una piccola fatica.

Vaìa

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