Nicola Stragaglia, detto Lino, parrucchiere di professione


Ogni uomo ha un grido di battaglia. Nicola Stragaglia, detto Lino, parrucchiere di professione, non faceva eccezione. Te lo lanciava alla fine del lavoro, mentre ti svolazzava intorno con il suo metro e sessanta di statura, agitando uno specchio col retro di plastica bianca e mostrandoti la perfetta sfumatura della tua nuca. “Ec-co!” Il si-gnò-re è ser-vì-tooo!”, ti sillabava deciso con quel suo strano accento da pugliese trapiantato, pieno di vocali aperte come il mare delle Tremiti, prima di nascondere il vetro dietro la schiena con un gesto da prestigiatore.
Nicola ha sempre avuto un’età indefinita. Chi avesse voluto lanciarsi in una stima anagrafica non avrebbe trovato elementi sicuri su cui basarsi. I pochi capelli (un vero affronto per chi faceva il suo mestiere) erano bianchi, ma conservavano decise tracce del loro nero originario. Erano pettinati con uno sfrontato riporto e grazie a una formula matematica nota solo a lui coprivano in modo perfetto ed equilibrato tutta l’ampiezza del suo cranio.

Era sempre sorridente. La sua uniforme d’ordinanza, che indossava puntualmente alle 9 di mattina per togliersela solo a fine turno, dieci o undici ore più tardi, era un vecchio camice azzurro, chiuso quasi fino al collo. Faceva eccezione l’ultimo bottone, che teneva sempre slacciato, per far occhieggiare una cravatta ben stretta, di color granata. Una divisa che aveva superato da tempo la maturità e che ne aveva viste di tutti i colori, ma che lui conservava con la massima cura, sempre in ordine e fresca di bucato. Oltre che stirata impeccabilmente, segno probabilmente dell’esistenza di una qualche signora Stragaglia di cui non si parlava mai, ma che agiva nell’ombra come la moglie del Tenente Colombo. Nel taschino facevano bella mostra di sé gli attrezzi di lavoro, quelli da tenere sempre a portata di mano: un pettine bianco a denti sottili e fitti e almeno due o tre paia di forbici, con cui accorciare, sfumare e sfoltire le chiome degli avventori. Completava il quadro l’immancabile spazzolina al talco appoggiata sotto lo specchio, con cui ti ripuliva deciso dai coriandoli di capelli che ti si accumulavano sul collo, mentre il tuo viso veniva inghiottito da una nuvoletta bianca e profumata.
Il negozio di Nicola si trovava in una delle vie più eleganti e ricche di vita del quartiere, proprio a ridosso della zona centrale, vicino alla stazione. Spiccava fra gli altri come una pelliccia da uomo in un oceano di piumini colorati. Perché fra una moltitudine di boutique, alimentari di lusso, gioielleri, negozi di arredamento, banche e profumerie era come sospeso in una piega del tempo ferma al 1976. Probabilmente un giorno qualsiasi di quell’anno, fra un attentato delle BR e una partita del Toro campione d’Italia, qualcosa era accaduto nel continuum spazio-tempo dell’universo. Un evento che non ha lasciato strascichi di rilievo, fatta eccezione per Nicola e il suo negozio, risucchiati direttamente negli anni Duemila. Lui non sembrava essersene accorto. Continuava a lavorare come se niente fosse, giorno dopo giorno. La sera si cambiava, chiudeva la vetrina, tirava giù la serranda, usciva e si ritrovava nel ’76. Accendeva la sua Simca (era sicuramente un tipo da Simca, o al massimo da Fiat 850) e tornava a casa tranquillo dalla sua signora, che lo accoglieva fra bigodini e paste al burro da consumare in fretta sul tavolo di formica, prima che iniziasse “Scommettiamo?” (“Dai Lino, stasera c’è Mike che mi piace tanto e non voglio perdermelo”).
Non era facile immaginare la vita privata di Nicola Stragaglia, parrucchiere. Ma in fondo non era nemmeno importante. Perché la sua vera vita si svolgeva fra le quattro mura del suo regno di lozioni, pettini, phon e talco mentolato. La vetrina, un trionfo di fòrmica marrone dal pessimo effetto legno, nascondeva alla vista l’interno del negozio grazie a una tendina bianca graziosamente ricamata (opera della signora, c’era da scommettersi). Unico accenno alla natura del luogo, oltre alla scritta “parrucchiere” dipinta a caratteri oro sull’insegna di vetro nero, era un’enorme fotografia di un modello con la permanente, dimenticata a fare bella mostra di sé su un tavolino di legno. Un bell’uomo, niente da dire. Un candidato perfetto al titolo di Mister Acconciatura 1979, di quelli con le basette sempre un po’ troppo lunghe e la faccia perfettamente sbarbata sotto un ciuffo ribelle domato dalla brillantina e dalla maestria di mani esperte e appassionate. Una foto che urlava perfezione e professionalità. Se cercavi un maestro nell’arte dell’acconciatura eri nel posto giusto. Con trent’anni di ritardo, però.
Dentro il senso di deja-vù era tanto forte da stordirti. Perché quella non era una stanza qualsiasi, no. Era la sala comando di una macchina meravigliosa. Era lo zenit delle teorie quantistiche alla base di ogni viaggio nel tempo. Era il luogo in cui tua madre ti portò a tagliare i capelli quando avevi sei anni, ignorando i tuoi strepiti e cacciandoti a forza su una sediola giravole in ferro su cui spiccava fiera una piccola testa di cavallo. Non era una stanza simile. Era la stessa stanza. Se avevi fra i 30 e i 40 anni entrare là dentro significava perdersi alla ricerca di quel cavalluccio, salirci, tornare bambino e inseguire i propri ricordi. Solo dopo, molto dopo, si poteva scendere e riprendere il controllo, rivolgersi a Nicola e cercare di spiegarli come si voleva il taglio, mentre ci si accomodava su una delle poltroncine verdi in finta pelle che c’erano davanti ai lavandini.
Lui ti ascoltava con attenzione, lo sguardo fisso nei tuoi occhi. Lo faceva sempre, era un segno di rispetto. Poi faceva come gli pareva, ché in fondo era l’unico che conosceva il mestiere là dentro. E poi cos’erano tutte quelle richieste? Un uomo è un uomo e la sua pettinatura è semplice: corta ai lati, più lunga sopra e con la riga. Unica concessione, la scelta della direzione: riga a destra o riga a sinistra? Quindi partiva e guai a chiedergli di usare la macchinetta. “Ah! Ma io non la ù-sooo!”, ti ripondeva lui con quella pronuncia tutta sua, mentre ci dava dentro di forbice e pettine con gli occhi ridotti a due fessure, che scansionavano la lunghezza del capello alla ricerca del taglio perfetto.
Nicola aveva due principali argomenti di discussione: il calcio e il lavoro. Quello dei clienti, ovviamente. Il suo non era abbastanza interessante da essere messo in mezzo. Se lo conoscevi bene, ma davvero bene, poteva poi eccezionalmente lasciarsi andare perfino a un rapido commento politico di carattere generale, subito seguito da un sospiro (“E queste nuove tàs-seee, eeehh?”) e affossato sotto chilogrammi di torti arbitrali e di problemi d’ufficio Ma di qualunque cosa parlasse una cosa era chiara: lui non esprimeva opinioni. O meglio, prima di parlare aspettava di capire come la pensasse la criniera che aveva per le mani. Quindi le andava dietro ossequioso, in un tripudio di consenso che avrebbe fatto al gioia di più di un direttore di telegiornale pubblico. Il cliente era il suo faro, in rari casi perfino il suo Dio. Per niente al mondo lo avrebbe contraddetto. Era un tifoso della Juve? Anche Nicola, amante delle gesta eroiche di Bettega-Platinì-Baggio-DelPiero. Pensava che il Toro fosse l’unica squadra torinese degna di questo nome? Pure lui, e quanta rabbia per i cugini sempre troppo favoriti! Il lavoro andava bene? Eh, noi sì che eravamo bravi e avevamo studiato, lui a stento tirava avanti. La sua non era soltanto voglia di compiacere chi pagava il suo lavoro, offrendogli un ambiente rilassante e mettendolo al centro assoluto del suo mondo, per coccolarlo. Era un moto dell’animo, che Nicola assecondava per natura e per dovere. Cresciuto alla vecchia scuola dei parrucchieri confidenti, il suo credo lo portava ad annullarsi nel cliente, fino a trascendere il proprio corpo per trasformarsi in un paio di forbici parlanti, che svolgevano il proprio lavoro con teutonica perfezione e senza esitazione. Lui era una semplice voce, che cullava e tranquillizzava. Nata e affinata per diventare l’amabile e innocuo sottofondo musicale di quella mezzora trascorsa nel suo negozio, esattamente come Nicola era nato e cresciuto per mimetizzare la sua origine meridionale, confondersi con la folla ed essere accettato dai polentoni che comandavano, che avevano i soldi, che affittavano le case e che al lavoro decidevano chi tenere e chi no. Guai a teste calde e gente abituata a dire troppo la sua.
Nicola si ricordava tutto quello che aveva passato. Così come registrava tutto quello che gli raccontavi. La volta dopo il suo computer mentale tirava fuori l’informazione giusta e il discorso riprendeva da dove si era interrotto. “E l’ami-coooo, l’ami-coooo lo ha più vi-stoooo?”, ti chiedeva se avevi confessato di conoscere qualche altro suo cliente. “E la fi-dan-zà-taaa?”, “Sua mo-glieee?”, “I fi-gliii, crè-sco-nooo?”. E tu giù a rilasciare dichiarazioni senza contraddittorio, che lui assorbiva come una pianta assetata senza dire nulla, fino alla prossima puntata. Stragaglia era un reduce. Uno abituato a lavorare, uno che aveva vissuto duramente. Un uomo costruito con elementi genuini, come la terra delle Puglie e l’acciaio delle sue forbici. A creme di bellezza e tagli sempre più alla moda e costosi lui rispondeva col suo diploma da parrucchiere, appeso con orgoglio sul muro più in vista della bottega, e con un paio di foto in bianco e nero in cui ritirava tutto orgoglioso qualche premio. Le sue lozioni avevano nomi italiani e scopi semplici: profumare, lucidare, rinforzare. Le spruzzava da grandi contenitori in vetro con la pompetta di plastica arancione, senza nemmeno chiederti il permesso, perché tanto facevano bene e lui lo sapeva meglio di te. Non aveva bisogno di tagliacapelli elettronici, sedie di design o led luminosi. Aveva nelle sue mani il mestiere, quello vero, fatto di pettini e pochi tagli dall’eleganza intramontabile. Di quelli che vedevi la domenica al cinema sulla testa di Mastroianni o Gassman, ma che non puoi trovare, per quanto ci provi, sulla nuca dei banali eroi della tv di oggi. Non aveva bisogno di trucchi, Nicola. Lui danzava intorno alla tua testa e glorificava il suo lavoro con semplicità, fra una pioggia di ciocche nere e umide.
Per questo oggi non ho potuto fare altro che ricordarlo, imbambolato com’ero davanti alla saracinesca chiusa del suo negozio, su cui campeggiava un cartello verde dalla scritta senza vergogna “Prossima apertura: Chihua-chic, Dog fashionist”. Probabilmente non è successo niente di grave e se n’è soltanto andato in pensione, magari a tener dietro a un paio di nipoti o a portare finalmente sua moglie in giro per il mondo. Amo pensare che una sera si sia tolto il camice, lo abbia spazzolato per bene e si sia preparato per chiudere. Immaginare che abbia allentato il nodo della cravatta, preso dalla cassa i pochi soldi della giornata e tirato giù la saracinesca, prima di salire sulla sua Simca 1000 e andarsene finalmente a casa. È stato allora che il varco con il 1976 si è chiuso e lui è rimasto dall’altra parte a continuare con la sua vita, come se niente fosse. Quando hanno forzato la serranda, i vigili del fuoco non hanno trovato anima viva. Soltanto un negozio di parrucchiere pieno di polvere e ragnatele, chiuso da oltre trent’anni e finalmente pronto per essere affittato. Nessuno, mentre spostava le poltroncine verdi ricoperte dalla patina del tempo o gettava qualche vecchio rasoio nel sacco dell’immondizia, avrà mai potuto immaginare la grazia da professionista di lungo corso che Nicola metteva nel suo lavoro, né quell’intimità che riusciva a creare con i suoi clienti, annullandosi nei loro pensieri. E nemmeno quel sorriso complice di gratitudine che mi rivolgeva ogni volta che rifiutavo la sua ricevuta da poche lire. Era il nostro teatrino finale, lui che faceva finta di prepararla e io che facevo finta di non vedere il colletto liso della sua camicia da lavoro o il nodo lucido della cravatta, decidendo di non chiedergliela. Prima di uscire per la strada e specchiarmi nelle vetrine fiero come un attore, con gli occhiali da sole e il sorriso sfrontato.

Vaìa

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